Grenada

Grenada Granada porto

Un pittore in delirio.

Quando guardai giù dal finestrino dell’aereo mi prese un senso di incanto allo scorgere in basso isole e isolette sparse su un mare che sembrava la tela di un pittore impressionista in delirio. Il verde e il turchese si muovevano sinuosi in iperboli simili a gocce di olio miste ad acqua. Ovali perfetti che si allungavano, si torcevano, si staccavano. Come quelle lampade anni ’70 la cui base riscaldata faceva salire e scendere bolle colorate. Striature blu sembravano volersi insinuare in correnti cinerine che si stemperavano in lagune verde cupo.
Le mie vele, allora, erano sospinte da brezze voluttuose. La definizione oltremodo poetica aderiva perfetta al mio sentire di allora. Avevo meno di 18 anni, la testa vuota e stavo per atterrare su una piccola isola dei Caraibi. Mi avrebbero pagato per accompagnare turisti a zonzo, bere rum e prendere sole su spiagge che erano esistite per me fino ad allora solo sulle riviste glamour. Quando le ruote toccarono terra pensai alle parole di papà: “Cerca cosa ti piace fare nella vita e fatti pagare per farlo”.
Guardami papà, guardami: lo sto facendo!

Grenada.

L’isola a cui ero diretta era Granada, la più meridionale delle isole windword (sotto vento) abbandonata nel più cristallino dei mari a nord del Venezuela. Morbida di colline e piantagioni di canna da zucchero e noce moscata. La chiamano “Isola delle spezie” a ragione. Il profumo persistente e tenace della noce moscata ti perseguitava ovunque, salendo lungo le narici e posizionandosi alla base degli occhi. Nulla riusciva a eliminare questo pizzicore, né i bagni di mare, nè le docce, nè le grandi bevute di Rum.
La capitale, St. Georges, era una graziosa cittadina coloniale con strade strette, facciate color pastello e tetti arancioni.
Io ero alloggiata all’hotel Rex Grenadian, inaugurato l’anno stesso del mio arrivo. Anche qui perfetto stile coloniale inglese. Avete presente quell’atmosfera fintamente spontanea data da tende di lino che sventolano agli alisei, piante fragranti e succose disseminate con cura approssimativa qua e là, e baristi neri con muscolature dirompenti intrappolate dentro succinte camice bianche…più bianche se possibile delle dentature che esibivano a chiunque a qualunque ora del giorno e della notte come se non ci fosse alcuna ragione al mondo per avere un solo dubbio? E poi ancora, a far da sfondo a tutto, un pianista nero come la brace con bretelle e papillon seduto a un pianoforte a coda lasciato con fare casuale in mezzo alla reception, come fosse una barca a vela alla deriva sul perfetto tabulato di un pavimento lucido sfavillante.
Io me ne stavo a zonzo tutto il giorno a mostrare case coloniali, spiagge idilliache, piccole cascate fagocitate da foreste strepitose, fabbriche di rum e di spezie. La sera mi trovavo la polvere di noce moscata fra i denti e l’odore accanito della spezia, insieme a quello del rum, non mi abbandonava mai. Questo connubio sarebbe rimasto nei miei ricordi per sempre associato a quel periodo beato in cui tutto era possibile e niente davvero importante.

Il mio ragazzo caraibico.

Tra un gruppo di turisti e l’altro ebbi il tempo di innamorarmi di un ragazzo locale. Aveva la mia età. Era bello. Anche io forse lo ero (la bellezza dell’asino…la gioventù). Due diciottenni che sfidavano le sfumature più ardite della pelle facendone largo sfoggio in spiaggia, nei ristoranti, per la strada. Una foto ci ritrae sorridenti sulla battigia: ridiamo sfacciati assolutamente indifferenti agli abbinamenti cromatici epidermici.
Ogni tanto mandavo fax a mia madre garantendole che la mia esistenza progrediva a larghe falcate e che sì, prima o poi sarei tornata. Che bella cosa essere giovani e scemi. La cosa importante è rendersi conto che il restarlo, scemi, non prolunga anche la gioventù.
Ricordo una sera in cui mi ritrovai ad aspettare il mio ragazzo caraibico fuori da casa sua. Infastidivo le galline e le oche razzolanti nell’aia nell’attesa che si decidesse a uscire quando, invece, a uscire fu la sua mamma. Mi fissò un po’ dall’uscio continuando a sgranocchiare semi di girasole. Sorrideva vestita come solo i neri sanno fare: senza criterio e pudore verso le sociali leggi dell’abbinamento delle tinte. Masticava e sorrideva.
“Tu sei l’amica di mio figlio vero? Entra, non mangiamo bianchi per cena. Non aver paura!”.
Eh…se penso a quelle che avrebbero potuto essermi (e una lo è stata!) suocere negli anni a seguire!!!! Lei alla resa dei conti sarebbe stata la migliore. Ne ebbi la certezza quando, una volta dentro, mi offrì coca cola e della marjuana. Sarebbe stata una nonna strepitosa.

Le isole Grenadine.

Una mattina accompagnai un gruppetto di turisti alle isole Grenadine. Le isolette avrebbero potuto dirsi pezzetti di terra di poco conto, briciole avanzate sulla tovaglia alla mensa di un Dio satollo. Stavano lì, abbacinanti e inutili, con la sabbia che tagliava i piedi per i troppi coralli spezzettati. Palmeti che parevano di gomma cullati dalle brezze marine. Silenzio spezzato solo dalle folate di vento e dalle urla degli uccelli. Le si raggiungeva con dei piccoli Peiper partendo dall’aeroporto di Saint George e il volo durava pochissimo. Quel mattino tirava molto vento e il pilota tardava. Aspettavamo da una mezz’oretta quando il controllore mi fece segno di iniziare ad avviarmi verso l’aeromobile che stazionava, giocattolino di lego colorato, in mezzo alla pista vuota. Il pilota sarebbe arrivato, intanto noi ci sistemassimo.
Il mio posto, come sempre, era quello di co-pilota. E già solo questo vi deve dare il senso dell’estrema cura e sicurezza con cui il tutto era gestito.
I turisti erano già sistemati dentro quando arrivò di corsa un ragazzo con i capelli rasta e a dorso nudo. In mano teneva una camicia stropicciata e il cappello dell’aviazione. Mi si avvicinò affannato e si scusò: “Tu sali, io mi vesto al volo, compro le noccioline e arrivo! Ieri era il mio compleanno, ho fatto un po’ tardi. Dai forza sali, che mentre siamo in aria continuiamo a festeggiare!”
Io da sempre ho paura di volare. Davvero. È un vuoto che mi si apre dentro, ancestrale come il richiamo dei tamburi. Un nodo che non so scogliere. Un mantra con un’eco pervicace nella testa che mi ribadisce che Dio le ali non me le ha fatte! Cosa ci faccio così lontano dalla terraferma???
Comunque se son qui a raccontare è perché il volo fu espletato con successo e le noccioline divorate.

Un’ultima immagine.

Un’ultima immagine, forse quella che fissa definitiva l’immagine della me di allora in quel contesto abbacinante caraibico.
Siamo su un molo io e un’amica. Aspettiamo che qualcuno ci venga a prendere con una barca per andare a fare aperitivo in qualche baia. Il sole sta tramontando. Io e lei ciondoliamo. Pelle abbronzata, capelli sciolti, la sete di “cose” che solo i giovani hanno e che raccontata agli adulti non si riesce a far ricordare. Comunque non so più chi stessimo aspettando. Ma ho sotto gli occhi, ancora, il mare arancione sotto i nostri piedi, che sciacquetta fra le fessure delle travi del molo, attraverso cui si infiltra la luce di un sole calante e feroce. Nell’aria un’idea di splendida provvisorietà.
La mia amica bionda si gira verso di me. Mi guarda con la strafottenza che si perdona solo a quelli che sono giovani e non hanno ancora capito un cazzo nella vita e dice: “Non ti sembra di essere dentro un film?”