Messico e Guatemala

cenotes

Margaritas e Daiquiri.

Vi ricordate quella sensazione…come di liberazione, scendendo in pieno inverno da un aereo, carichi di giubbotti e piumini, per immergersi nell’aria calda e umida dei tropici? Alle spalle, come un mondo a cui non si appartiene più, i rigori dell’inverno, la malinconia delle giornate grigie, i maglioni in cui strizzarsi infreddoliti nelle sere sempre troppo buie?
Messico e Guatemala. Sensazione di aver scampato un pericolo e di essere approdati salvi alla luce. Margaritas e Daiquiri sorseggiati indolenti nella calura di sere piene di luce.
La mattina, con il favore di lievi brezze subito stroncate dal sole, si partiva per esplorare siti Maya e mercati locali. Mangiavo pannocchie e bevevo succhi a base di canna da zucchero. Cantavo e ridevo di continuo.
Ricordo una guida locale che si chiamava Lino. Ad ogni gruppo di turisti in arrivo si presentava come un discendente dei Maya. Un MayaLino. Era una cazzata che accorciava subito le distanze e ben si accordava con i colori sfacciati dei tessuti, delle tavole imbandite, degli arazzi nei mercati. Mexico e nuvole. La vita lieve da percorrere con indolenza.
Le piramidi Maya, sdoganiamola una volta per tutte questa verità, si assomigliano tutte. È il contesto che prende. Il verde che avanza, sfrangiato di liane e grondante umidità, pronto a divorare nel suo incedere antichi templi in cui qualche sacerdote obnubilato da funghi allucinogeni strappava da petti ancora vivi cuori sanguinanti da regalare a Divinità annoiate in un cielo troppo incombente.

I cenotes.

Ricordo che un giorno un amico si tolse la fede dal dito, la infilò in una catenina e iniziò a perlustrare i territori dello Yucatan in cui sorgevano questi templi facendolo oscillare avanti e indietro come un pendolo. Secondo la sua teoria il luogo in cui l’anello oscillava in modo più evidente, era terreno bagnato dal sangue di sacrifici umani. Il Messico diventava pertanto un’enorme coppa ricolma di sangue in cui immolazioni di vergini e capre si erano alternate come grani di rosario durante tutto il periodo Maya. Cosa ben diversa, stessi attenta, era capitato in Egitto dove il suo anello non oscillava proprio per nulla dando a intendere che il Regno dei Faraoni fosse stato un periodo di rispettosi scambi umani tra regnanti e umile plebe.
Sapete cosa sono i Cenotes? Ce ne sono ovunque in Yucatan. Sono dei corsi di acqua sotterranei intercettati con buche profondissime scavate nel terreno. Ti affacci sul bordo pieno di liane e radici frondose e in fondo vedi l’acqua verde e attraente nella sua limpidezza. Ti vien voglia di saltarci dentro e ti frena solo il fatto che in realtà, in quelle buche, ci finivano le vergini immolate sempre per i soliti Dei. Così ti immagini che lì, in fondo, giacciano innumerevoli scheletri di giovani donne la cui unica colpa è stata quella di non essere state ancora contaminate dalla natura. Il contesto globale allora appare sinistro: l’umidità della giungla si fa insopportabile, gli urli delle scimmie troppo acuti, il fogliame marcio diventa funesto presagio di qualcosa da cui allontanarsi.
Attraversavamo a bordo di snelle lance a motore il fiume Usumacinta che fa da confine naturale tra i due paesi e entravamo in un Guatemala, se possibile, ancor più silvestre. Il sito di Tikal offriva rovine maestose e intatte oltre a essere una corbeille palpitante di vita tropicale. Il suono degli uccelli ti perseguitava sin dalle prime ore dell’alba.

Il casino del mondo.

Poi partivano gli strilli delle scimmie urlatrici. Le ascoltavi mentre eri ancora nella tua camera e avevi l’impressione fisica di avere alla porta un giaguaro incarognito pronto ad afferrarti con gli artigli appena avessi aperto la porta. E invece niente. Uscivi e le urla restavano in alto, oltre le cime degli alberi. Altissimi. Neanche le scimmie riuscivi a vedere in mezzo a tanto fogliame.
Dalla giungla si passava ai mercati. Chichicastenango. Già solo dirlo mi scioglie lingua e nodi interni. Donne senza collo ma con grandi occhi pieni di riso ti offrivano tessuti dai colori incredibili. Ti sedevi sulla scalinata della chiesa, con la solita pannocchia in mano, a guardare il mercato impazzito nella calura del giorno.
Sorridevo, ricordo, senza rendermene conto. Senza un calcolo premeditato. Sorridevo perché mi sembrava la cosa più ovvia da fare in quel momento. Bimbi con ciabattine di paglia ti circondavano per venderti cartoline, cani brutti tutti nella stessa maniera si accucciavano sfiancati dal caldo ai tuoi piedi. E tu contrattavi per comprare un copriletto con il disegno di qualche maschera Maya che, già sapevi, sarebbe finito nella casa di campagna a prendere polvere su qualche vecchio divano. Ma era bello parlare con loro: sentirsi parte di un mosaico colorato pieno di sfumature, ombre e luce. Io ero un piccolo tassello colorato e brillante nel casino del mondo.