L'aeroporto più pericoloso del mondo - parte II

chiesa kiruna

Pillole di viaggio.

L’aeroporto di Lukla si chiama Tenzing Hillary, in onore di due persone che sono delle celebrità assolute per chi ama o conosce l’Himalaya: Tenzing Norgay è un alpinista nepalese che insieme all’alpinista neozelandese Edmund Percival Hillary fu il primo in assoluto a raggiungere la vetta dell’Everest con i suoi 8.848 metri di altezza, il 29 maggio 1953.

L’aeroporto Tenzing Hillary di Lukla è famoso in tutto il mondo perché considerato uno dei più pericolosi, se non il più pericoloso in assoluto. Motivo? La sua posizione: si trova su un roccione a quasi 3.000 metri di altezza, soggetto a forti venti e con pista molto corta, in pendenza e perdipiù con finale di corsa che praticamente coincide con il burrone e un migliaio di metri di salto. Insomma, se gli aeroplanini in atterraggio sbagliano manovra o si alza improvvisamente il vento rischiano di schiantarsi sulla montagna, se in partenza non staccano in tempo rischiano di finire giù dal burrone.

A Lukla non ci si annoia mai.

Da Katmandu ogni mattina si attendono le previsioni meteo, se non c’è vento e la torre dà l’ok allora si parte, altrimenti si può tranquillamente tornare in città. I veicoli che coprono la tratta sono piccoli aeroplani con motore ad elica chiamati in gergo frullini, tipo i canadesi Twin Otter, che trasportano fino a 18 persone, sono piuttosto rumorosi e ballano che è un piacere.

Dalla nostra sala di attesa un po’ sgangherata li possiamo vedere tutti. Ci sono varie compagnie, Yeti è quella con cui viaggerò io, ma ne conto altre quattro o cinque. Gli aeroplanini sembrano in ordine ma è chiaro che di ore di volo devono averne fatte tante negli anni.

Quando finalmente chiamano i possessori del cartellino del nostro colore il primo pensiero è che con uno di quegli affari dovrò atterrare nell’aeroporto più pericoloso del mondo. Viene quasi spontaneo iniziare ad osservare i dettagli, notare le ammaccature, verificare se i tasselli sono ben serrati e cose irrazionali di questo genere. Una volta saliti sento i commenti degli altri, basta un bracciolo sgualcito per far gridare all’allarme, ecco, vedi, te l’ho detto che non dovevamo volare con questa compagnia.

Ora, non mi trovavo di fronte a un rottame, tipo il mitico Savoia Marchetti in tela cerata del 1915 con cui Fantozzi in Pappa e Ciccia va in vacanza. Però in questi casi la mente viaggia un po’ troppo veloce.

L’hostess passa tra noi passeggeri, una quindicina in tutto, e ci distribuisce del cotone, indicandoci come andrebbe utilizzato. Tutti lo mettiamo nelle orecchie, sperando funzioni. Dai nostri sedili si vede bene l’attività dei due piloti in cabina, non esiste un separatore, nemmeno una tendina. Si vedono le strumentazioni e praticamente tutti siamo attirati dai movimenti dei due ai comandi. È tutto un susseguirsi di sposta una leva, gira una rotella, toccane un’altra, poi la giri ancora, poi rimetti a posto la manovella di prima, insomma non si capisce se è una procedura perfettamente oliata oppure se stanno muovendo bottoni e leve a caso. Ovviamente noi ci auguriamo che sia l’opzione uno.

L’aereo della Yeti Airlines adesso è in volo, sembrerebbe che quelle leve e bottoni abbiano fatto il loro lavoro. Il rumore è forte, il cotone non sembra aiutare un granché. L’aereo balla parecchio, vuoti d’aria, movimenti improvvisi, rumori strani, a volte butto un occhio fuori per vedere se le ali hanno ancora tutti i pezzi al loro posto. Ma si procede e anche bene. Dopo pochi minuti dal decollo iniziamo a prendere quota e a quel punto della pericolosità del viaggio o dell’aereo non importa più nulla a nessuno. Adesso chi attira l’attenzione è un’altra cosa: si chiama Himalaya. Quello che passa fuori dai finestrini è qualcosa di semplicemente spettacolare, voliamo infatti a ridosso della parte sud della catena, e le pareti al nostro fianco sono impressionanti.

Voliamo praticamente a ridosso del confine Nepal Tibet. Anche la vetta dell’Everest si trova a metà tra i due stati. Il campo base più gettonato è quello nepalese. Da qui partirono Tenzing e Hillary nel 1953. Mentre quello sul lato tibetano è normalmente chiamato il campo base “North Face” perché si trova sulla parete nord della montagna. I primi italiani salirono sul tetto del mondo dal lato sud nel 1973. Mentre Reinold Messner ci salì la prima volta nel 1978, primo alpinista della storia a conquistare l’Everest senza ossigeno, mentre nel 1980 fece registrare un altro record salendo dalla parete nord per la prima volta in solitaria.

I trenta minuti di volo che servono a coprire i circa 150 km di distanza passano in un baleno. Stiamo scendendo verso destinazione. L’aereo si abbassa di quota fino a compiere una rotazione a sinistra di circa 90 gradi, a quel punto in lontananza si vede un enorme roccione con una specie di rientranza pianeggiante sulla cima. Li c’è la nostra pista di atterraggio.

I piloti riprendo ad armeggiare con leve e rotelle, l’aereo si abbassa ma sembra che stiamo dirigendoci verso il roccione, il vento si sente e le ali ballano parecchio. Siamo tutti un po’ con il fiato sospeso. In realtà i piloti con abilità ed esperienza seguono le traiettorie migliori per evitare le folate improvvise e infatti ci teniamo bassi. Solo all’ultimo, non senza un po’ di ansia nostra, ci alziamo muso all’insu per superare il muro di roccia e atterrare sulla pista. La suspence non è finita. La pista è molto corta, circa 500 metri, e data la posizione i piloti non possono atterrare proprio all’inizio, per cui non c’è abbastanza spazio per rallentare del tutto il velivolo, obbligando i piloti ad eseguire una sorta di inversione quasi a u durante la frenata al fondo della pista.

Credo molti abbiano visto le immagini per esempio del vecchio aeroporto Hong Kong Kai Tak, quando i jet erano costretti ad atterrare letteralmente tra i palazzi, oppure l’aeroporto Princess Juliana di St. Maarten, dove enormi bestioni atterrano praticamente sulle teste dei bagnanti. Ma qui a Lukla c’è un misto di tutte le peggiori condizioni, avversità meteo, pista corta e in pendenza, posizione a strapiombo sul nulla, altezza 3.000 metri, aeroplani di piccolissime dimensioni quindi meno stabili.

In più non esistono sistemi avanzati di controllo, per cui se da Katmandu danno l’ok si parte, altrimenti no. Se poi le condizioni peggiorano durante il viaggio sta ai piloti valutare se provare ad atterrare oppure provare, se ancora possibile, di fare inversione di marcia e tornare indietro.

Appena atterrati scendiamo e ringraziamo con una forte stretta di mano i piloti. Noi recuperiamo gli zaini e iniziamo le nostre avventure di montagna. Loro hanno circa 10 minuti per fare il turn around, ossia predisporre documenti e veicolo per la ripartenza. Nel frattempo ci sono i passeggeri in attesa di rientrare. Si capisce benissimo che loro sono al rientro, lo si capisce dalla forte abbronzatura da alta montagna, dalle barbe e pettinature incolte, un po’ dal modo di atteggiarsi. In realtà si capisce anche che è da un po’ che non si fanno una bella doccia, ma non vorrei rovinare il patos del momento.  Noi siamo pronti e motivati, ma allo stesso tempo un po’ intimiditi, consapevoli che ci attendono giorni faticosi, con possibili problemi di gestione della quota, possibili notti insonni magari per il freddo o perché il letto è scomodo o perché il tuo sacco a pelo non è abbastanza caldo. Loro invece tutto ciò l’hanno già dimenticato, nelle gambe e nella testa non ci sono più preoccupazioni o fatiche, c’è solo l’immensa soddisfazione di aver percorso i sentieri e goduto dello spettacolo offerto dalle vette himalayane.

Ora per loro non resta che prendere posto sul Twin Otter e rientrare a Katmandu, dove ci si potrà finalmente godere dei confort ultimamente quasi dimenticati di una normale camera di albergo. Non senza aver provato prima quel brivido di adrenalina mentre il tuo aeroplanino corre a tutta forza giù dalla pista e tu sei in attesa che decolli prima che arrivi il precipizio.