Islanda

musica cinese

Scorro con il dito il mappamondo. Vado su, su in cima, verso il polo. Mi blocco giusto prima del Circolo Polare Artico. L’Islanda sotto i polpastrelli non ha grossi rilievi. Non sembra neanche eccessivamente grande. In realtà lo è. Sta lì immobile, avvolta nei suoi ghiacci e nelle fumarole dei suoi Geyser.

Torno con la memoria a quel febbraio. Mi sembrava eccessivo in pieno inverno andare a cercare altro freddo. E nebbia. E neve. Eppure quando sono scesa dall’aereo ricordo una sensazione che non avevo mai provato. Come se un magnete mi avesse agganciato i piedi al suolo. Ero lì. Non avevo le solite idee metafisiche da mercato popolare con cui approccio sempre la vita. Non filosofeggiavo da bancone del bar come faccio abitualmente. Non avevo niente che lambiccasse il mio pensiero. Solo quell’aria fredda, la nebbia bassa sui campi, i cavalli che mi guardavano passare con occhi indifferenti. La sensazione di essere al mondo. In questo mondo. Fatto di materia prima di tutto. Fatto delle mie mani intirizzite, dei miei scarponcini troppo caldi, dei vetri appannati del finestrino attraverso cui cercavo di vedere qualcosa là fuori.

Ricordo il gestore del piccolo hotel a Reykjavik. Un omone alto con una folta barba nera. La praticità fatta essere umano. Grandi mani con cui mi ha dato le chiavi. Spalle enormi che non hanno faticato a portare il mio zaino in camera. Occhi scuri e buoni che hanno sorriso più di tutto il resto nel comunicarmi gli orari della colazione. Grazie e arrivederci. Odore di legno e di null’altro. Persistente odore di legno e tovaglie a scacchi.

Niente orpelli. Non li ho trovati nelle persone. Figurarsi nei panorami.

Al porto anche le strida dei gabbiani mi sono parse insolitamente essenziali. Sarà stata l’aria che puliva, mi sono detta. Sarà stato lo spazio eccessivo, calato in un contesto del tutto afono. Chissà….

I miei passi sui sentieri scricchiolavano solitari. Eppur c’era la guida con me. Ma probabilmente anche i suoi passi facevano un rumore eremitico. Ognuno viveva per sé. Ognuno camminava sull’incredibile spiaggia nera di basalto cercando un orizzonte che la nebbia si era mangiata. Ognuno nella sua ciccia.

Mi fermai in una fattoria. Ne uscì un anziano infastidito dalla nostra presenza. Disturbavamo gli elfi. Creature in cui lui a furia di vagare nei boschi in cerca di bacche molto probabilmente si era impersonato un tantino di troppo. Aveva anche le orecchie troppo grandi. Ora che ci penso….

E poi sono stata in quella laguna famosa, la Blue Lagoon, con l’acqua lattiginosa e fumante. Ciabattine ai piedi e numerosi solleciti da parte dell’inserviente affinchè mi decidessi a uscire in costume e accappatoio al gelo e sotto la neve per immergermi nell’acqua a 40°. Con calma ok? Con calma… arrivo dall’Italia io… ho la faccia di una che si potrebbe chiamare Greta o Álfgerður?

Già la sera precedente con il cibo avevo avuto qualche difficoltà di approccio. Una magnifica ragazza con trecce bionde spesse come funi e un sorriso smagliante mi avevano servito pregna di un orgoglio che non avevo capito, una mezza testa di pecora con occhio semiremovibile precariamente incluso nel cranio. Mi guardava e sorrideva. La guardavo e pensavo mi volesse prendere in giro.

Una notte ho visto l’Aurora Boreale. Ecco: ero lì con i miei bei piedi ancorati al suolo e lassù, nello spazio infinito dove di solito amo alloggiare e divagare, facevano un gran party con tanto di luci stroboscopiche.

Ghiaccio e lava. Cameriere bellissime e pietanze orripilanti. Neve e acque termali calde.

Io nel mondo con i miei scarponcini e lassù nell’aeree una vita a me preclusa.