Caracas

Quartiere di Caracas

I colori di Frida Kalho.

Caracas era una città orrenda. Un tempo però, quando io avevo 20 anni, almeno non era letale.
Alloggiavo in un bel quartierino decorosamente malfamato di cui potei, in seguito, vantarmi come una consumata avventuriera di altri tempi. Dividevo l’appartamento con la figlia del mio capo la quale, a sua volta, subaffittava il locale a due doberman e a una scimmietta bastardissima. La nostra convivenza aveva davvero i colori dei quadri di Frida Kalho. La cucina era piena di padelle, piatti e terrine.
Piante in vasetti, bicchieri, bottiglie e contenitori vari sbucavano da ogni angolo e rami, grovigli vegetali e piantine in essicazione perenne pendevano da ogni dove.

Le mie fragilità.

La frutta, manco a dirlo, aveva la polposità e i colori che solo un eventuale pennellata di Botero avrebbe potuto riportare in tutta veridicità. Nella sala i copri divani arrivavano dal Perù e dal Guatemala, i tappeti erano dei kilim acquistati in qualche raid in Bolivia e i lampadari li faceva lei, con quello che avanzava delle bottiglie rotte dopo che erano state debitamente scolate nelle innumerevoli feste che si susseguivano in casa.
Immagino non sia necessario precisare che attorno a me si passava con allegria e spensieratezza dalla blanda marijuana a dosi massicce di cocaina. Io, paurosa come sempre, mi dedicavo con maggior fervore al rum.
Apro una breve parentesi in questa mia narrazione per precisare che sono una persona assolutamente non capace di resistere alle più blande tentazioni. Nell’ammettere questa mia fragilità però mi fregio di un grande merito: ho imparato presto che è bene scendere in guerra solo quando si hanno possibilità di vittoria. Se no, non merita neanche armarsi.
Tutto questo preambolo per spiegare che ci sono un mare di cose che a questo mondo fanno male e sono buonissime. Con alcune ho raggiunto un compromesso accettabile. Per esempio il vino: mi piace e quando sono a tavola in compagnia io bevo, felice e satolla. Ma mi accorgo che, se non fossi con amici che a un certo punto della serata mi sfilano il bicchiere da sotto il naso (con conseguente rischio di averne mozza la mano, ma i miei amici sono impavidi) io andrei avanti.
Per questo motivo non mi sono mai avvicinata alle droghe. Neanche a quelle che al giorno d’oggi vengono vendute nelle farmacie. Io le temo perché sono certa che sia un mondo meraviglioso (non se ne spiegherebbe l’uso così abbondante) ma temo altresì che la mia debole capacità di opposizione a quelle che sono le gioie della vita mi spingerebbe ad abusarne.
Quindi, da sempre, io che ho la fama di persona eccessiva, stupisco in ultimo tirandomi indietro alla semplice offerta di una sigaretta. Patetico e semplicemente vero.

Tornando al Venezuela.

Tornando al mio soggiorno venezuelano, mi intrattenevo amabilmente con cocainomani le cui tracce di polvere mi trovavo sui pantaloni il giorno dopo, con fumatori accaniti che mi si sedevano accanto riducendomi a colabrodo magliette e camicette con sigarette di hashish o marijuana. Ma io a tutto questo sono rimasta sempre rigorosamente estranea. Chiusa parentesi.
A Caracas fui immediatamente presentata al fratello della mia coinquilina. Realizzai in un secondo momento che quella conoscenza era la mia unica garanzia di aver salva la vita nel quartiere. Il ragazzo, belloccio e inquietante come alcuni indios sanno essere, era dedito allo spaccio e in qualche modo, anche se in ambito differente da quello turistico, seguiva le orme del padre, impegnato unicamente a raggiungere i vertici del settore in cui manovrava: la malavita. A guardarlo si sarebbe detto che ce l’avrebbe fatta senza faticare.
Mentre scrivo di quel tempo cerco di non calcare la mano sui colori, ma assicuro che le tinte erano davvero forti.
In ogni caso grazie a queste mie amicizie non incontrai mai un inghippo nello svolgersi pacato e sereno della mia vita venezuelana. Non ho avventure degne di questo nome da raccontarvi.
I “ragazzi” appostati per lo spaccio mi vedevano arrivare e si facevano segno tra di loro. Io passavo, salutavo, compravo le uova e entravo in casa. Una vita tipo quartiere Cit Turin insomma. Nessun pathos particolare, nessun avvenimento mozzafiato da narrare.

La scimmietta e i doberman.

Quando la mia coinquilina mi chiese se fossi disponibile a guardarle per un paio di settimane le bestie (i succitati doberman e scimmietta) non avevo rilevato la pericolosità della richiesta. E dissi di sì.
Furono due settimane movimentate. La scimmietta doveva dormire chiusa nella camera con me perché diversamente avrebbe tormentato ininterrottamente i due cani che, alla lunga, avrebbero anche potuto cedere al richiamo della foresta e mangiarsela. Così io e “cita” dormivamo abbracciate e lei di notte mi sondava le orecchie, perlustrava il mio naso, cercava di strapparmi le sopracciglia. La mattina, esauste, ci alzavamo ogni giorno un po’ meno affiatate. Preparavo da mangiare e lei aspettava vicino alla pentola con occhietti spiritati. Quando cedevo e le mollavo uno gnocco, per esempio, lei se lo passava da una mano all’altra per non bruciarsi e poi, quando realizzava che forse sarebbe stato comunque troppo caldo, me lo tirava addosso stizzita. Oppure bersagliava i cani. E allora iniziava la guerra.
Scendevo con i due doberman (mi pare si chiamassero Samba e Rumba o Mambo e Samba…chissà) a passeggiare nel parco vicino a casa. Ricordo che il fratello della mia amica mi avvicinava per chiedermi se tutto andasse bene e per estorcermi la disponibilità della casa per qualche festicciola. Le festicciole Venezuelane non sono esattamente tranquille seratine fra amici. Io alla fine cedevo e ne approfittavo per portare a spasso canidi e scimmia. Quelle sere di “uscita forzata” erano alla fine le migliori. Prendevo la macchina e guidavo fino sulla costa. Qui io e la scimmia (ma come si chiamava? Non lo ricordo!) mangiavamo le pannocchie abbrustolite che vendevano in strada, ci sedevamo sul bagnasciuga e lanciavamo legnetti ai cani che correvano tuffati nell’arancione-viola del tramonto. Tanto c’era sempre qualcuno che ci avvicinava, vuoi con la scusa della scimmia, vuoi perché in quei paesi sembra imposta dalla Costituzione la cortesia e la disponibilità verso il prossimo che si incontra per strada. E così conoscevo manipoli di personaggi che se Pirandello li avesse trovati, li avrebbe subito assoldati e non li avrebbe lasciati girovagare in cerca di ulteriori autori. Ascoltavo storie, raccontavo le mie, bevevo una birra e poi me ne tornavo in casa cercando di non accorgermi di qualche individuo buttato a dormire sbronzo sul divano o riverso sul tappeto. La mattina dopo già sapevo che il salotto sarebbe stato sgombro.
A me non restava altro da fare che buttare le bottiglie vuote, comprate, ça va sans dire, nei peggiori bar di Caracas.