L'aeroporto più pericoloso del mondo - parte I

chiesa kiruna

Pillole di viaggio.

Mattina molto presto, è ancora completamente buio. L’autista del taxi mi chiede di pagare la tariffa richiesta prima ancora di arrivare a destinazione. Ha fretta. Mi dice di aprire la porta ed iniziare a scendere quando la macchina non è ancora del tutto ferma, io scendo con un saltello per evitare di cadere, acchiappo al volo il mio zaino che il tassista ha già scaraventato fuori dal baule e mi dirigo verso l’aeroporto. Qui tutti hanno fretta, la maggior parte dei voli partono prestissimo e i taxi devono tornare in centro a tirar su altri viaggiatori.
Entro in un enorme stanzone, devo fare lo slalom tra le persone che mi avvicinano chiedendo di portarmi il bagaglio, bisogna fare attenzione. Alcuni accettano e si ritrovano le valigie contese tra più portatori con conseguenti litigi e discussioni.
Con lo zaino saldamente in spalla proseguo imperterrito. Gente mi chiede dove vado, se mi serve una guida, se mi serve cambiare. Il caos è notevole.
La cosa buffa però è che in teoria un po’ di aiuto mi servirebbe. Io avrei teoricamente un biglietto aereo ma non ho la più pallida idea di dove andare, non ci sono cartelli, non ci sono indicazioni, solo un via vai continuo, colorato e caotico di persone, turisti, addetti ai lavori, gente carica di sacchi e scatoloni di ogni peso e misura e borsoni da viaggio di ogni tipo e genere.
L’unica cosa che so è che dovrei viaggiare con la compagnia aerea Yeti Airlines, che ha una livrea bianco verde e che i voli partono la mattina presto. Ho un biglietto aereo, ma in realtà non lo è, mi hanno detto che è un documento proforma e che in aeroporto avrei ricevuto poi quello ufficiale, infatti si tratta di una specie di pezzo di carta con qualche scarabocchio sopra. Non ho orari, in realtà un orario mi è stato dato, ma mi hanno detto che poi in aeroporto mi avrebbero confermato gli orari effettivi di partenza. Non ho numeri di volo, in realtà un numero ce l’avrei, ma mi è stato detto che poi in aeroporto mi avrebbero comunicato il numero di volo ufficiale. Insomma tutto chiaro no?
Dopo qualche minuto di investigazione ed esplorazione del luogo in cui mi trovo intuisco dal tipo di passeggeri, dal loro abbigliamento e dalle loro attrezzature che potrei essere nell’area giusta. Chiedo ad un gruppetto di tedeschi con giacca in goretex, mi rispondono che nemmeno loro ci hanno capito nulla, anzi sono visibilmente infastiditi dalla situazione, quasi increduli, ma dopo qualche minuto di brainstorming bilaterale giungiamo tutti alla conclusione che, si, sembrerebbe proprio che siamo arrivati nel posto giusto. Ora non resta che provare a fare qualcosa di analogo a quello che comunemente si definisce check in.
Tra uno scatolone di birre e una gabbia di galline spiccano per colori i tanti borsoni “The North Face” in materiale tecnico impermeabile. Ad un certo punto arriva un gruppo di persone con aria da gente che sa il fatto suo, la giacca che indossano riporta sul retro una scritta colorata e significativa: “Everest expedition”.
Si, ci siamo, ora non resta che salire sull’aereo giusto, sperando che quel pezzo di carta che ho in tasca sia in qualche modo valido.
Sempre evitando le mille offerte di aiuto e trasporto consegno il mio pezzetto di carta in mano a quello che pare l’addetto al check in. Immediatamente un paio di persone si manifestano alle mie spalle, mi sfilano con energia lo zaino e lo mettono su una bilancia di quelle tipo bascula di una volta, poi gli mettono un cartellino su cui scarabocchiano qualcosa con una specie di pennarello.
Qualche istate dopo l’addetto al check in cui avevo consegnato il pezzetto di carta mi guarda con simpatia e mi consegna un cartellino in cartoncino colorato, non ricordo il colore ma ricordo che era particolarmente malconcio. Intuisco che quella sia la mia carta di imbarco. Poco dopo incrocio lo sguardo di uno del gruppo dei tedeschi, anche lui con lo stesso cartoncino, sorridiamo, ma in un certo senso ci rassicuriamo che effettivamente abbiamo svolto le nostre operazioni di registrazione e imbarco del bagaglio. O almeno lo speriamo.
Mi viene spontaneo cercare con lo sguardo dove lo zaino possa essere finito. Dopo un po’ di ricerca finalmente riesco a vederlo, è finito in un grosso mucchio indistinto di borsoni, bauli, scatole, sacchi, di tutto, nella speranza che sia il mucchio con destinazione equivalente alla mia.
Sono all’aeroporto domestico di Katmandu e sto cercando di partire. Ovviamente la mia non è una “Everest expedition”. Esageruma nen. La mia è una più modesta e diciamo più fattibile e decisamente godibile “Everest base camp expedition”. L’obiettivo è il campo base dell’Everest a circa 5.350 metri di altezza, tempo di percorrenza stimato andata e ritorno circa 12 giorni.
Da Katmandu, a quota 1.400 si prende un voletto di trenta minuti con destino il villaggio himalayano di Lukla, quota 2.850. Da Lukla inizia il trekking. La prima tappa è in discesa, si entra nella vallata del Khumbu, da cui, con un altro paio di giorni di salita si arriva a quota 3.400 al villaggio di Namche Bazar. Si tratta di un punto strategico per la salita all’Everest, qui si trova la maggior parte dei servizi legati all’alpinismo. Le spedizioni fanno il punto proprio qui, arruolano gli sherpa e si procurano il materiale di consumo che servirà durante la loro lunga e tosta salita.
Da tempo si parla di costruire una funivia che colleghi l’aeroporto di Lukla al sito di Namche Bazar. In realtà ne aveva già parlato Ardito Desio negli anni 80 ma, forse per fortuna, non se ne è mai fatto nulla.
Anche noi più modesti trekkers usiamo Namche Bazar per prepararci adeguatamente al resto dell’avventura. Qui è buona norma fermarsi due notti. Fare una sorta di giorno extra di acclimatamento, sfruttando il tempo a disposizione per salire di quota il più possibile ma rientrare poi alla base alla sera in modo da abituare in modo progressivo il nostro corpo alla quota.
Ho visto gente snobbare questi accorgimenti, con atteggiamento quasi di superiorità, oppure bere birra allegramente come se fossimo in vacanza al mare. Be’, ne ho poi trovati molti nei giorni successivi in seria difficoltà per aver preso la questione sotto gamba. Oltre i 3.000 l’ossigeno rarefatto nell’aria si inizia a sentire, soprattutto di notte è difficile dormire. Si può avere nausea, vertigini, e la cosa può aggravarsi anche nel giro di poche ore. Infatti qualcuno deve regolarmente essere riportato a valle in elicottero d’urgenza.
Ma questa è un’altra storia. E avviene cronologicamente dopo un’altra avventura, ossia quella che si deve per forza affrontare per arrivare al villaggio di Lukla, luogo da cui si parte con il trekking e luogo in cui si trova l’aeroporto Tenzing Hillary, detto anche comunemente l’aeroporto più pericoloso del mondo. Continua la storia la prossima puntata.