Strane avventure sopra i 4000 metri

A380

Pillole di viaggio.

Potosi, Bolivia. L’ostello si trova all’interno di un gradevole edificio coloniale. Classica atmosfera andina. Solito via vai di persone e zaini in arrivo e partenza per tutte le destinazioni. Io sto bevendo un mate di coca quando viene verso di me uno dei miei compagni di stanza, un tedesco. Mi dice: fuori c’è il minibus in partenza per l’escursione alla miniera. Hanno ancora due posti liberi, vieni? Sapevo della miniera di argento di Potosi, impossibile non saperlo, ma sapevo anche che era stata praticamente chiusa e poi riaperta e affidata ad alcune cooperative locali. Poca chiarezza su modalità di gestione e soprattutto molti rischi. Si diceva che praticamente ogni giorno in miniera c’era almeno un incidente grave, spesso addirittura mortale.

Chiedo al tedesco: ma siamo sicuri non sia una pazzia andarci a ficcare li dentro? E lui risponde, si probabilmente si ma chissenefrega. Ok, rispondo io, a questo punto direi che bisogna andare.

E si parte. Il furgone sale per le viuzze ripide di Potosi. Destinazione Cerro Rico. Si tratta di una montagna alta circa 4.800 metri. La più grande miniera di argento al mondo. E anche la più vecchia. Parliamo di metà 1500. Gestita dai conquistadores spagnoli, dalla quale ricavavano enormi quantità del prezioso minerale, obbligando a lavorare in condizioni di totale schiavitù gli indios locali.

Verso metà del 1600 Potosi aveva circa 200.000 abitanti ed era la città in assoluto più ricca di tutto il continente americano. Nel 1600, per intenderci, Potosi aveva circa gli stessi abitanti di Londra.

Leggende narrano che mettendo insieme tutto l’argento estratto negli anni si sarebbe potuto costruire all’epoca un ponte che avrebbe potuto collegare il Messico con la Spagna.

Ma torniamo a noi. L’autista ci fa scendere: non si può entrare in miniera a mani vuote. Andiamo a comprare i doni da offrire alla Pachamama. Benissimo diciamo noi. E compriamo tre cose: immancabili foglie di coca, una specie di alcol trasparente dall’odore terrificante, e un po’ di bottiglie di coca cola.

Prima di entrare ci viene detto di lasciare zaini e cose ingombranti nel furgone perché dentro i cunicoli sono molto stretti. Ci viene data una specie di giacca da minatore e un casco con pila frontale.

Inizio a pensare che non avrei dovuto assolutamente dare retta al tedesco. Ma ormai è tardi. In più lui mi guarda dicendo: smettila di preoccuparti, non fare l’italiano.

Di fronte a noi un ambiente surreale. Cunicoli alti massimo un metro, con rotaie e continuo via vai di carretti carichi di pietre miste a minerali. Ogni tanto uno si rovescia, e bisogna ritirare su tutto.

I minatori in volto sono impressionanti. Visi scavati da sole e fatica, con in bocca la tradizionale pallina di foglie di coca miste ad agenti alcalini tipo il bicarbonato, per massimizzare l’estrazione dei principi della foglia.

I minatori stanno in miniera anche fino a 10 ore consecutive. E non mangiano ne bevono. Semplicemente masticano foglie di coca.

Noi entriamo, all’inizio seguiamo il cunicolo con le rotaie. Relativamente comodo per passare, poi ci viene indicato un cunicolo largo massimo 60 cm. Dobbiamo arrampicarci qui dentro. Saliamo di una decina di metri. E cosi facciamo. Tipo talpe nel terreno. Sbuchiamo più su in un luogo più ampio. Sembra una specie di secondo livello. Da li ci spostiamo ancora. L’aria nel frattempo diventa davvero rarefatta. Umidità, odori. Sembra di essere all’inferno. Inizio a sentirmi un po’ davvero a disagio. Mi metto ad osservare gli altri e mi sembrano tutti abbastanza tranquilli. Penso, vabbè, dai, non facciamoci caso.

Arriviamo in un altro cunicolo, dove ovviamente ci dobbiamo infilare. Al fondo un’altra apertura. E incontriamo 4 o 5 minatori a cui portiamo i nostri doni.

Prendiamo le foglie, a cui bisogna rigorosamente asportare la nervatura centrale, e le diamo ai minatori. Poi capiamo a che serve l’alcol a 90 gradi. Praticamente in una bottiglia vuota se ne miscela un po’ ad una bibita a piacimento e poi si fa l’offerta alla Pachamama, con tanto di brindisi finale. Noi inclusi. Io sto già sudando freddo, e rifiuto il poco invitante cocktail.

Ma la cosa che attira di più la mia attenzione è ciò che sta dietro ai minatori. Una serie di cordini lunghi qualche metro escono dalla parete. Guardo bene. Sono candelotti di dinamite con relativa miccia, che i minatori hanno appena apposto e che a breve faranno scoppiare.

Da quando la miniera è gestita in questo modo stiamo parlando quasi di un’auto gestione. Senza nessun tipo di approccio industriale o per lo meno pseudo organizzato. I minatori entrano, scavano praticamente a mani nude, depongono i candelotti e a scoppio avvenuto portano fuori il materiale, sperando poi di trovare qualche acquirente. Altri invece sono assunti da cooperative che pagano i minatori in base alla quantità di minerale estratto. Ecco perché spesso avvengono incidenti. La montagna ormai è una specie di enorme gruviera, e uno scoppio non perfettamente programmato o coordinato può causare crolli improvvisi o aperture di crepe sotterranee. Si stima che ogni giorno ci entrino a lavorare divisi in vari turni fino a 10.000 minatori. Compresi anziani e poco più che bambini.

Un salto indietro nel tempo di un secolo.

E dopo aver visto i candelotti e i minatori che sorridono bevendo alcol puro inizio a chiedere quanto manca alla fine della nostra visita. Non per essere troppo curioso o insistente, dico, ma giusto per sapere se quando quelle micce saranno accese noi saremo ancora lì oppure no.

Insomma, questa è la miniera di Potosi.

Da quando i conquistadores iniziarono a mandare gli Incas superstiti a lavorare in schiavitù in miniera ad oggi sono passati più di cinque secoli. Eppure chi ci lavora oggi non sembra molto più libero. È l’aspetto più duro della vita andina. Spesso non ci si accontenta di una vita di sussistenza e ci si fa attirare dai guadagni che la miniera sembra offrire. E si dimentica il prezzo, altissimo, da pagare.